quarta-feira, 22 de junho de 2011

A FELICITA' GIUSTA SE IL BENESSERE DIVENTA DI TUTTI

La Dichiarazione d' indipendenza dei tredici Stati Uniti d' America del 4 luglio 1776 inizia con un' enfatica dichiarazione. Esistono verità "per se stesse evidenti": che tutti gli uomini sono creati uguali e che sono dal Creatore dotati di alcuni inalienabili diritti. Tra questi, oltre alla vita e alla libertà, c' è la ricerca della felicità ( pursuit of happiness ). La (ricerca della) felicitàè uno dei grandi temi che ha caratterizzato, nel suo insieme, il secolo XVIII, dal punto di vista morale e politico. La Dichiarazione d' indipendenza è figlia di quel tempo e, come vedremo, di quella terra. Il secolo successivo è stato molto più prudente. Anzi: la felicità come meta della vita individuale e collettiva è stata piuttosto associata all' infelicità, in una sorta di coincidentia oppositorum. Per gli individui, è fonte d' inquietudine e di aspirazioni mai stabilmente soddisfatte. Per le società, è fonte di forze distruttive, operanti su larga scala. Possiamo farci aiutare da un testo classico, che non cessa di stupire per la sua fecondità, Il Grande Inquisitore de I fratelli Karamazov di Dostoevskij. Si dice, di solito, che il dialogo dell' Inquisitore col Cristo silente tratta di libertà degli uomini e di dominio sugli uomini. In realtà, ancor prima è un discorso sulla felicità e sull' infelicità: l' infelicità che è generata dalla libertà e, viceversa, la felicità che può derivare dalla liberazione dalla libertà. Leggiamo. Non c' è nulla di più ammaliante per l' uomo che la libertà del proprio giudizio, ma non c' è nulla di più tormentoso. Onde verrà presto il momento in cui, tutti insieme, deporranno la loro libertà ai piedi di qualcuno che ne li libererà e questi saranno gli Inquisitori: eccoi veri liberatori dell' umanità, coloro che la libereranno dall' oppressione della libertà cioè da quella tensione tra il desiderio e la realizzazione, da quella irrequietezza e da quello spirito di rivolta che è il germe dell' infelicità umana. Un paradosso letterario, o una diagnosi antropologica e politica? Che la libertà sia un peso è quasi un luogo comune. Che questo peso, almeno nella letteratura reazionaria basata sull' idea della corruzione della natura umana, possa essere sopportato solo da uomini superiori e non dalla massa, anche. La massa è fatta da schiavi con la costituzione del ribelle, dice l' Inquisitore: in quanto ribelli, vogliono la felicità, ma in quanto schiavi non ne sono capaci e hanno bisogno del padrone. L' Inquisitore avrebbe certamente detto che il diritto "americano" di cercare la felicità era in realtà la condanna all' infelicità. Dovrà regnare la felicità, sì, ma la dovrete ricevere da noi, gli Inquisitori, che ve la amministreremo nella misura che vi è consona . Ma quale felicità? La felicità consiste nell' aver tolto dal cuore il tormento che deriva da quel dono che è la libertà. Non s intende qui la libertà come possibilità di scelta di convenienza; della libertà, per così dire economica, legata semplicemente a preferenze, la libertà del consumatore, per intenderci. Stiamo parlando di ben altra cosa, della libertà di realizzare se stessi, di scegliere che cosa si vuole che sia la nostra esistenza. È questa, non l' altra, la libertà che deve essere tolta all' essere umano per renderlo felice. Nonè forse questo il segreto di un certo tipo di dominio su vasta scala, su esseri umani standardizzati nei piccoli loro desideri, alimentati continuamente dalla "comunicazione", questa nuova scienza del governo che sempre di nuovo propone stili vita, modelli di massa che promuovono desideri mediocri, volgari e conformisti? Oggi, così si vive in società, attraverso il governo dei desideri, cioè degli animi: una forma di potere che sembra avere sostituito, con effetti anche più radicali, il controllo dei corpi. Che sia meglio una cosa o l' altra, è discutibile, poiché il controllo dei corpi almeno lascia la libertà interiore di desiderare, pur se impedisce di perseguire l' oggetto del desiderio. Questo è un modo per contrastare gli effetti distruttivi della (ricerca della) felicità, tramite il controllo omologante dei desideri, un controllo che può giungere fino a spegnerli, con ciò riducendo gli esseri umania bestie. "Il faut les embêter". L' altro modo è quello di ricondurli non di disumanizzarli, ma di "istituzionalizzarli", trasformando l' instabile "materiale psichico" soggettivo che alimenta la ricerca della felicità in qualcosa di obbiettivo, funzionale alla vita sociale. Sigmund Freud, nel celebre scritto del 1920 su Il disagio della civiltà parla di felicità, infelicità e istituzioni con riguardo alla psiche umana e dice: «Non vogliamo ammetterla <l' infelicità delle società odierne&, non riusciamo a comprendere perché le istituzioni che noi stessi abbiamo creato non debbano rappresentare una protezione e un beneficio per tutti. <...&. Di fatto l' uomo primordiale stava meglio, poiché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L' uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po' di sicurezza». Con queste parole, si tocca il punto centrale: il rapporto tra felicità e sicurezza. La massima (ricerca individuale della) felicità comporta la massima insicurezza sociale: nessuno sarebbe sicuro di nessuno; i patti sarebbero impossibili perché tutti li violerebbero quando ostacolassero quella ricerca. Verrebbe meno la fiducia, che di ogni vita sociale è condicio sine qua non. Simmetricamente, la massima sicurezza coinciderebbe con l' assoluto divieto della (ricerca individuale) della felicità. Che dire allora? Che per vivere in società dobbiamo rinunciare alla ricerca della felicità, riducendoci a gregge sotto un pastore che provvede per noi o istituzionalizzandoci integralmente, "funzionalizzandoci" alla società? Non sia mai. Ogni società è un equilibrio tra sicurezza dei rapporti e desiderio di alterarli per accrescere la propria felicità. Come permettere la ricerca della felicità senza compromettere un livello minimo di sicurezza e fiducia tra gli esseri umani? La formula della Dichiarazione d' indipendenza americana, dalla quale abbiamo preso spunto per queste considerazioni, è l' espressione genuina del più ingenuo ottimismo del secolo dei "lumi". Poteva forse corrispondere a una possibilità effettiva in società come quella delle tredici colonie che non conoscevano confini.O meglio: società dove lo spazio non costituiva limite e condizione. Il viaggio a occidente per cercare fortuna era la prospettiva per una ricerca della felicità che poteva svolgersi senza conflitti (le popolazioni autoctone non facevano problema). Questo era il mito americano, così intimamente legato al miraggio della felicità. Ma negli "spazi pieni"? Lo spazio pieno è quello in cui ogni spostamento di uno comporta lo spostamento di altri. È, da secoli, la condizione europea. Ma gli spazi sono ormai saturi anche in America dove, oggi, le frontiere, non più allargabili, sono presidiate dalla forza pubblica. Che cosa si deve concludere, allora? Che la ricerca della felicità, qui e oggi, è impossibile? Che la società, coni suoi vincoli, ci soffoca inesorabilmente? Che la profezia del Grande Inquisitore o il "disagio della civiltà" ci condannano alla passività e all' immobilità? Sopra tutto, notiamo uno spostamento, anzi un rovesciamento di senso. La ricerca della felicità era, originariamente, la rivendicazione sulla bocca degli cioè degli oppressi. Basta leggere il preambolo della Dichiarazione d' indipendenza. Oggi, il senso s' è rovesciato. Sono i potenti, i "Prominenten", che la rivendicano come diritto, la praticano e l' esibiscono, spesso oscenamente, come stile di vita. Non sentiremo uno sfrattato, un disoccupato, un lavoratore schiacciato dai debiti, un migrante irregolare, un individuo strangolato dagli strozzini, un rom cacciato, una madre che vede il suo bambino morire nei primi mesi di vita, rivendicare il suo diritto alla "felicità". Grottesco! Sentiremo questo eterogeneo popolo degli esclusi e dei sofferenti chiedere, invece che felicità, giustizia. La loro "felicità" sta nel chiedere un poco di giustizia. Negli spazi pieni, la felicità nel senso della Dichiarazione citata all' inizio è diventata la pretesa dei forti, che fa torto ai deboli; la giustizia, non la felicità, è la richiesta dei deboli che contestanoi privilegi dei forti. Così, oggi, felicità è diventata parola dal senso rovesciato rispetto a quello originario, cioè è diventata parola d' oppressione, parola di classe, e come tale dovremmo trattarla. Con quest' ulteriore precisazione, che viene quasi da sé: la felicitàè un' aspirazione che riguardai singoli individui, la giustizia,è un' aspirazione che riguarda la società tutta intera. Come tale, è funzione non delle pulsioni individuali ma delle politiche collettive. Una conclusione certo inquietante. Sullo sfondo c' è lo stato-provvidenza, uno stato che ha tendenze totalitarie in vista di una qualche concezione della giustizia che deve valere per tutti. Così è che, nella ricerca dell' equilibrio tra libertà della ricerca individuale della felicità e giustizia sociale, in Europa entra quel vincolo esterno alla coscienza che è l' obbligo legale. Anche nella Dichiarazione dei diritti francese del 1789 si parla di felicità. Ma non è la felicità individuale; è "le bonheur de tous". Tra questi "tutti", la legge ha il compito di stabilire i limiti e i confini, onde la felicità dell' uno non diventi infelicità degli altri. Una dimensione oggettiva della felicità fa qui apparizione, come insieme dei diritti di libertà previsti, regolati e limitati dalla legge. In tutti gli "spazi pieni" nel senso anzidetto è così. La rivendicazione di un anacronistico diritto all' illimitata ricerca individuale della felicità, per quanto seducente agli occhi degli ingenui o dei troppo furbi, è fautrice di ingiustizie, tensioni e disfacimento sociale. Questo testo è una parte della Lezione magistrale dal titolo "Felicità. La possibilità del bene" che Gustavo Zagrebelsky terrà domenica a Modena nell' ambito del Festivalfilosofia - GUSTAVO ZAGREBELSKY

LA SOCIETÀ DELLA INCERTEZZA

La modernità è arrivata come una promessa, ben determinata a sfidare e conquistare l' incertezza, a condurre contro quel mostro policefalo una guerra totale di logoramento. I filosofi dell' epoca spiegavano l' improvvisa abbondanza di crudeli e terrificanti sorprese - prodotte dalle forze sprigionate da lunghissime guerre di religione, fuori controllo e tali da sfuggire alla presa e al freno di pesi e contrappesi - con il fatto che Dio si era ritirato dalla supervisione diretta e dalla gestione quotidiana della Sua creazione, oppure con il cattivo funzionamento della creazione in quanto tale, ossia coni capricciei ghiribizzi cui la Natura è soggetta finché, non venendo imbrigliata dall' ingegno umano, resta aliena e sorda rispetto ai bisogni e ai desideri degli uomini. Vi potevano essere differenze tra le spiegazioni preferite, tuttavia gradualmente emerse un ampio accordo relativo al fatto che l' attuale amministrazione degli affari mondani non reggeva alla prova e che il mondo aveva bisogno di essere urgentemente sottoposto a una nuova gestione (umana, questa volta) indirizzata a chiudere i conti una volta per tutte con i più terribili demoni dell' incertezza: la contingenza, la casualità, la mancanza di chiarezza, l' ambivalenza, l' indeterminazione e l' imprevedibilità. (...) Quando tale compito sarebbe stato portato a compimento, gli esseri umani non sarebbero più stati dipendenti dai "colpi di fortuna". La felicità umana non sarebbe più stata un dono del fato, ben gradito, ma non richiesto, bensì il regolare prodotto di una programmazione fondata sulla conoscenza scientifica e sulle sue applicazioni tecnologiche. In realtà la gestione umana non è stata in grado di corrispondere alle aspettative popolari, alimentate dalle assicurazioni generosamente concesse dai suoi dotti progettisti e dai suoi poeti di Corte. È vero che molti dispositivi ricevuti in eredità e accusati di saturare d' incertezza la ricerca umana erano stati smantellati e gettati via, ma il volume d' incertezza prodotto dai modelli che li avevano sostituiti non era inferiore al precedente. (...) Per i primi cento o duecento anni della guerra contro l' incertezza si è minimizzato il fatto che non si fosse registrata una convincente vittoria. I sospetti che l' incertezza potesse essere una compagna permanente e inseparabile dell' esistenza umana tendevanoa veniMODENA - Zygmunt Bauman, Carlo Galli e Michela Marzano, di cui anticipiamo i testi, sono ospiti alla decima edizione del Festivalfilosofia in programma a Modena, Carpi e Sassuolo da domani a domenica. Il tema di quest' anno è la fortuna. «L' avvenire, il domani, pare aver riacquistato la sua natura di incontrollabile contingenza, di luogo di esplicazione di grandi forze che, in gran parte, sfuggono al nostro controllo», ha detto Remo Bodei, presidente del comitato scientifico della manifestazione. L' inaugurazione - venerdì alle 15 a Modena in Piazza Granre negati come essenzialmente sbagliati, o quanto come non sufficientemente dimostrati, dunque prematuri: nonostante le crescenti prove in contrario, era ancora possibile pronosticare che, dopo aver corretto questo o quell' errore e dopo aver superato o aggirato questo o quel rimanente ostacolo, si sarebbe potuta conseguire la certezza. (...) Durante gli ultimi cinquant' anni, tuttavia, si è fatto largo un drastico cambiamento nella nostra visione del mondo, che ne condiziona adesso parti ancor più fondamentali rispetto alla concezione che avevano i nostri antenati riguardo al ruolo della contingenza negli itinerari congiunti della storia umana e della vita degli individui, e alle loro idee di come si poteva mitigarne l' impatto de - è affidata all' 83enne Bauman con la prima delle 50 lezioni magistrali di intellettuali italiani e stranieri in programma. Tra i relatori: Marc Augé, Gustavo Zagrebelsky, Massimo Cacciari, Umberto Galimberti, Enzo Bianchi, Tullio Gregory, Maurizio Ferraris, Roberto Esposito. Gli altri 150 appuntamenti riguarderanno la narrazione (con letture di Erri De Luca e Stefano Benni), il teatro (con Paolo Rossi e Alessandro Haber), il cinema (Enrico Ghezzi racconta Kieslowski), la musica, le iniziative per bambini. © RIPRODUZIONE RISERVATA grazie al progresso della conoscenza e della tecnologia. Nelle nuove narrazioni delle origini e dello sviluppo dell' universo, della formazione del nostro pianeta, delle origini e dell' evoluzione della vita sulla Terra, così come nelle descrizioni della struttura e del movimento delle unità elementari di materia, gli eventi casuali - cioè eventi essenzialmente imprevedibili, indeterminati o del tutto contingenti - sono stati promossi e innalzati dal grado di marginali "fenomeni di disturbo" a quello di attributi primari della realtà e sua principale spiegazione. La moderna idea di ingegneria sociale fondava la sua affidabilità sull' assunzione di ferree leggi che governavano la Natura e avrebbero reso l' esistenza umana ordinata e pienamente regolata, una volta spazzate via le contingenze responsabili delle turbolenze. Negli ultimi cinquant' anni, però, siè arrivatia mettere in questionee sempre più a dubitare dell' esistenza stessa di tali "ferree leggi" e della possibilità di concepire ininterrotte catene di causaeffetto. Oggi ci stiamo rendendo conto che contingenza, casualità, ambiguità e irregolarità sono caratteristiche inalienabili di tutto ciò che esiste, e pertanto sono irremovibili anche dalla vita sociale e individuale degli esseri umani. (...) Detto questo, si noti che nella nostra epoca liquido-moderna ci sono infinite ragioni, più che cinquant' anni fa, per sentirsi incerti e insicuri. Dico "sentirsi", perché il volume delle incertezze non è aumentato: lo hanno fatto invece volume e intensità delle nostre preoccupazioni e ansie, e ciò è accaduto perché le lacune tra i nostri mezzi per agire efficacemente e la grandiosità dei compiti che ci troviamo di fronte e siamo obbligati a gestire sono divenute più evidenti, più ovvie e in verità più minacciose e spaventose rispetto a quelle di cui hanno fatto esperienza i nostri padri e i nostri nonni. A farci sentire un' incertezza più orrenda e devastante che in passato sono la novità nella percezione della nostra impotenza e i nuovi sospetti che essa sia incurabile. (...) Man mano che il potere di agire in modo efficace gli è scivolato via dalle dita, gli Stati, indeboliti, sono stati costretti ad arrendersi alle pressioni dei poteri globali e ad "appaltare" alla cura e alla responsabilità degli individui un numero crescente di funzioni in precedenza da loro erogate. Come ha mostrato Ulrich Beck, oggi ci si aspetta che siano donne e uomini singolarmente a cercare e trovare risposte individuali a problemi creati socialmente, ad agire su di essi utilizzando le loro risorse individuali e ad assumersi la responsabilità delle loro scelte, nonché del successo o insuccesso delle loro azioni. In altri termini, oggi siamo tutti "individui per decreto", cui si ordina, presupponendo che ne siamo capaci, di progettare le nostre vite e di mobilitare tutto ciò che serve per perseguire e realizzare i nostri obiettivi di vita. Per la maggior parte di noi, tuttavia, questa apparente "acquisizione di capacità" è in tutto o quanto meno in parte una finzione. La maggior parte di noi non possiede le risorse necessarie per innalzarsi dalla condizione di "individui per decreto" al rango di "individui di fatto". Ci mancano la conoscenza necessaria e la potenza richiesta. La nostra ignoranza e la nostra impotenza nel trovare e attuare soluzioni individuali a problemi socialmente prodotti hanno come esito perdita di autostima, vergogna per essere inadeguati di fronte al compito e umiliazione. Tutto ciò concorre all' esperienza di un continuo e incurabile stato di incertezza, cioè l' incapacità di assumere il controllo della propria vita, venendo così condannati a una condizione non diversa da quella del plancton, battuto da onde di origine, ritmo, direzione e intensità sconosciuti. Traduzione di Daniele Francesconi - ZYGMUNT BAUMAN

Nenhum comentário:

Postar um comentário